di Marta Cereda
“Incominciava il tramonto: il cielo sembrava dipinto sopra la continuazione del muro, era un blu profondo, quasi fisico. Dopo qualche istante ci si accorgeva che era il vuoto, il vuoto infinito del cielo. Era una continua alternanza di due opposti, il fisico e il vuoto.
L’esperienza più impressionante doveva venire poco dopo, quando l’apertura incominciò a colorarsi dei colori del tramonto. Fu una visione incredibile, una successione di emozioni una più intensa dell’altra. Era come se stessimo vedendo il tramonto per la prima volta. Ho sempre amato il tramonto; mi piace stare fermo a guardare fino a quando i colori spariscono e viene la notte.”1
Ogni tanto mi viene in mente.
Non ho vissuto quell’esperienza, eppure ogni tanto mi viene in mente ed è come se fossi stata con Giuseppe e Rosa Giovanna Panza di Biumo seduta per terra, sui cuscini, nella casa di James Turrell a Santa Monica, a scoprire per la prima volta i colori del tramonto e la potenza della luce, guardando in silenzio verso ovest dalla fessura del muro.
Un silenzio che, immagino, non potesse annullare i suoni della città, le interferenze sonore urbane, così come accade in Wavelenght di Michael Snow2, in cui i cambiamenti luminosi e i mutamenti, talvolta repentini, talvolta graduali, del suo zoom impreciso convergono per quarantacinque minuti verso una fotografia di onde, alla parete. Mi domando se anche la suddivisione dei vetri delle finestre nel film di Snow, così come l’immagine finale su cui si stringe l’occhio del regista e gli sbalzi cromatici, abbia influenzato la struttura di Sunset journeys di Lidija Delic. Può essere che il progetto, che si è nutrito di Tacita Dean e di Olafur Eliassoni3, contenga anche questa suggestione, visto che il lavoro è una velatura di memorie personali e di ascendenze esterne, di viaggi altrui, di località esotiche, di paesaggi domestici, di cieli dipinti e fotografati, di occhiali da sole per non farsi abbagliare e poi bisogna toglierli, perché è buio, non si riesce più a leggere, non si può scrivere, è notte ormai.
Per dipingere i suoi tramonti, Lidija Delic è partita da cartoline e da fotografie. Cartoline acquistate, ma mai scritte e mai spedite, forse per cercare di conservare un ricordo che altrimenti, affidato alla posta e alle mani altrui, si sarebbe potuto smarrire. Fotografie scattate in Montenegro, suo paese natale. Il tempo dello scatto e quello della visione non sono stati però sufficienti per impossessarsi dell’esperienza. Arriva allora la pittura, arriva il colore, arrivano i sette strati di velature per il fondo, i cinque strati per il sole e il riflesso sul mare. In mezzo, tra un livello e l’altro, c’è bisogno di tempo. Per far seccare l’olio, per far sedimentare il ricordo, per allontanarsene. L’aggiunta di ogni pennellata di colore allontana dall’esperienza personale, la copre per poterla consegnare ad altri, come quelle cartoline mai inviate. Finito uno, si passa al successivo, che non può essere uguale al precedente, che non può essere migliore o peggiore, è semplicemente un altro, un altro giorno, un altro viaggio, un altro tramonto. La ripetizione aiuta, l’antico motto latino supporta l’artista.
La serialità accompagna da tempo la produzione di Lidija Delic: si ritrova nella sequenza dei marmi di Seascapes (2015), in A landscape of lakes and butterflies (2015), in Diving (2015), in Interspace (2016), in cui l’idea di frammentazione e ricomposizione da un lato richiama le sequenze cinematografiche, dall’altro le prime sperimentazioni sulla fotografia. D’altra parte, la ricorrente sagoma che si tuffa, l’acqua che si apre e gli schizzi che increspano la superficie4 altro non sono che una prefigurazione del riflesso del sole sul mare di questi tramonti.
Nonostante sia quindi strettamente legata alla produzione precedente, la serie Sunset journeys ha origine in un momento ben definito: il casuale ritrovamento da parte dell’artista di un diario di bordo all’interno dell’edificio che ospitava la sede della compagnia marittima Jugooceanija a Kotor, in Montenegro. Ecco allora l’idea di rappresentare sul fronte di quelle pagine, che raccoglievano dati molto precisi sull’andamento della navigazione, su dazi, importazioni ed esportazioni, visioni idilliache di tramonti dai colori tropicali, con una breve didascalia, cancellata però da una striscia bianca. La struttura a dittico cernierato consente di sfogliare queste pagine e leggere sul verso, al contrario, quanto dal recto è nascosto. Parola e immagine non sono quindi fruibili contemporaneamente, nonostante il ricordo dell’una influenzi la lettura dell’altra, così come già era successo in Los Perros Romaticos5, lost in translation tra Roberto Bolaño e la lingua serba.
Nell’evoluzione di Sunset journeys, questa mancata corrispondenza tra immagine e didascalia, debitrice delle influenze di Marcel Broodthears6, si libera della parte testuale, per rimanere puro colore. L’artista si allontana dal desiderio di suggerire all’osservatore una narrazione, limitandosi a fornire la testimonianza di una storia possibile, di un viaggio compiuto o sognato, la cui descrizione può essere letta e dimenticata e, quindi, riscritta da ognuno. I tramonti, modello di un’esperienza individuale e delle sue infinite configurazioni, nella consapevolezza dell’impossibilità di identificare una costante universale di fronte a uno stesso spettacolo, diventano “una parabola metodologica e personale”7 che trasforma un riferimento naturale, concreto, fisico in un’immagine al limite dell’astrazione. Sono una riflessione sulla memoria, sulla discrasia e sulla disforia generate dal rapporto tra il tempo della visione e quello della rappresentazione e che si possono risolvere soltanto nel nero della notte o nel bianco del foglio: nell’installazione (Postcards, 2017) è completamente affogato dal colore, mentre nelle carte (Sunset I, Sunset II e Sunset III, 2017) l’immagine vi galleggia. Il fondo è così sia piena luce sia sua assenza, o ancora carta vuota per ospitare i messaggi che le cartoline non inviate possono accompagnare.
In Postcards, la traiettoria cambia continuamente, è simultaneamente orizzontale e verticale, consente nello stesso istante una lettura paratattica e una ipotattica, mentre la visione si dinamizza nell’occhio dell’osservatore, in cui si ricompone la mutevolezza e la varietà dello spettacolo di cui l’immagine dipinta conserva solo una traccia. La rapidità della trasformazione rende il tramonto emblema di caducità di colori e forme8. I toni accesi delle carte di Lidija Delić mascherano questa crepuscolarità, ma la loro realizzazione contiene la consapevolezza di un fallimento, lo stesso narrato da Claude Lévi-Strauss in Tristi Tropici9 il tentativo di fermare nel tempo, l’uno con la parola scritta, l’altra con la pittura, forme e colori evanescenti, la ricerca di conservare, dilatare e condividere la memoria di un avvenimento che, una volta vissuto, è perduto. D’altra parte, “un ricordo così esiguo merita che io prenda la penna per fissarlo?”.10
Lidija Delic (Montenegro, 1986) vive e lavora a Belgrado, in Serbia. Dopo essersi diplomata in Pittura presso la facoltà di Belle Arti a Belgrado, ha conseguito un dottorato presso il dipartimento di Arte Multimediale della stessa università. Il suo lavoro è stato esposto in mostre personali e collettive, tra cui si ricordano Interspace (Gallery 212, Belgrado, 2016) e Diving (Espacio Trapezio, Madrid, Spagna, 2015). Nel 2015 è stata artista in residenza presso Glo’ Art, Global Art Center, Lanaken, Belgio e Intercambiador Acart, Madrid, Spagna. Nel 2017 è stata selezionata per BJCEM, Biennale des jeunes créateurs de l’Europe et de la Méditerranée. È cofondatrice di U10 Art Space.
1. Giuseppe Panza, Ricordi di un collezionista, Milano, 2006, pp. 149-150.
2. Michael Snow, Wavelenght, 1967.
3. Ci si riferisce, in particolare, a Film di Tacita Dean (Tate Modern, Londra, 2011-2012) e a The Weather Project di Olafur Eliasson (Tate Modern, Londra, 2003).
4. Rispettivamente in: Lidija Delic, Seascapes, 2015; Lidija Delic, Diving, 2016; Lidija Delic, Untitled (Interspace), 2016.
5. Lidija Delic, Los Perros Romanticos, 2016.
6. Si pensi, tra gli altri a: Marcel Broodthears, Chère Petite Soeur, 1972; Marcel Broodthears, Le Mauritania, 1972; Marcel Broodthears, Bateau-Tableau, 1973.
7. Maria Pia Pozzato, Mito e parabola. La descrizione del tramonto in “Tristes Tropiques”, Palermo, 1993, p. 23.
8. Un progetto, non ancora realizzato, di Lidija Delic, ben descrive questo disfacimento: una scatola trasparente dalle pareti aranciate con all’interno una cartolina immersa nell’acqua, che rende progressivamente illeggibile il messaggio, sino a disfare la carta.
9. Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, 2015, pp. 52-59.
10. Ivi, p. 11.
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