di Arianna Beretta
Come è possibile che una persona venga colpita in testa da una campana? Caduta da dove poi? Subito ho pensato ai tanti spot pubblicitari con macchine che cadono dal cielo su passanti ignari o asteroidi che colpiscono famigliole felici e perfette mentre fanno colazione. Il sorriso è immediato per l’assurdità della situazione. La reazione è quella del “non potrà mai succedere e dunque ridiamoci sopra”.
Quando Adriano Annino mi ha proposto il titolo della mostra, ho accettato con entusiasmo: la scena di un uomo che cade a terra perché colpito da una campana mi piaceva molto (e mi faceva anche ridere).
Poi però parlando con Adriano ci siamo soffermati sul paradosso ovvero su una situazione che la ragione non contempla, che sembra contraria alla logica, ma invece può dimostrarsi valida anche se incredibile.
Certo non è “quasi” possibile che una campana ci cada in testa, ma è certo che gli imprevisti sono all’ordine del giorno. Tutti noi abbiamo sperimentato questa condizione e Adriano Annino spinge a riflettere sull’imprevedibilità degli eventi, che non possiamo controllare ma che spesso si trasformano in occasioni di cambiamento e trasformazione. Che ci piaccia o no.
Siamo ossessionati dalla pianificazione e dall’organizzazione; crediamo così di essere pronti a reagire, ma è solo una illusione. Annino ci dice che è necessario abbracciare l’imprevisto, l’imprevedibile perché ci può esporre a possibilità impensabili.
Ne parliamo insieme in questa breve intervista.
Da tempo realizzi progetti che uniscono pittura e musica e dunque, secondo la mia visione, il visibile e l’invisibile, la materia e l’idea. Da cosa nasce questa esigenza? Che ruolo ha la musica nel tuo fare pittura?
Nasce da come sono nato e da come sono stato educato dalle persone, dai luoghi, dagli eventi e da me. Nel mondo fisico, dove e l’ingiustizia è sequenzialmente il premio della giustizia, l’arte è un luogo di legittimazione nel quale esse simultaneamente convivono. Se la pittura è la mano che indica (una materia?), la musica è l’altra mano sulla spalla (che pensa?) e viceversa. In questa scena ci sono due persone, una che abbraccia e indica e un’altra che ascolta e reagisce. Questa relazione, che nella realtà è disordinata, è un’esigenza e un bisogno virtuale. Le relazioni non sono controllabili, possono essere scelte, imposte, piacevoli, disturbanti, ci si può illudere di poterle controllare, e così via, richiedono comprensione e curiosità. Che si stia parlando di pittura e musica o di persone quello che a me interessa è l’intensità del movimento, della relazione, che si genera tra il vuoto, l’inizio, lo svolgimento e la fine e come, e a quale scopo, questo venga vissuto, sovrapposto, utilizzato e inutilizzato.
Per questa mostra ti sei misurato con un grande protagonista della storia dell’arte e non è la prima volta che sali sulle spalle dei giganti. Perché questa scelta che ritengo davvero coraggiosa?
Non esistono più i giganti e le gerarchie (sono mai esistiti?). È un mondo orizzontale dove sono implosi i ruoli, l’inizio e la fine. Siamo terrapiattisti. Non esistono più alunni e insegnanti, le fonti e i destinatari. È ormai culturalmente possibile fare il passo più lungo della gamba. Mi interessa l’utilizzo di materiale che posso ottenere senza regola, in modo sia progettuale che casuale, da me e da qualsiasi persona, oggetto, evento, immagine, suono, pensiero, che può essere rielaborato, abbandonato o preso così com’è. Tristan Garcia in un saggio su Sturtevant scrive: “Mi ripeto: in un mondo in cui nulla è vero, solo ciò che finge di non essere falso funge da verità. Così l’opera che si tiene strettamente al simulacro senza nasconderlo è la più vicina a ciò che veramente è. Forse l’onestà del falsario è l’estrema virtù. La grazia della simulazione che non aspira a nient’altro mi alleggerisce dall’autenticità, che alla fine è ciò che c’è di più falso.” E ancora “Con l’aria ostinata di una bambina Sturtevant rifiuta di ammettere la necessaria fine dell’opera. Vorrebbe che l’opera durasse per sempre. Ma è impossibile. Poco importa, lei non vuole essere culturalmente ragionevole. Non accetta di lasciarla, è come la perdita di un genitore, e non ammette di parlarne al passato; vuole che ciò che ha visto, pensato e amato ricominci a diventare possibile in eterno. É un amore laico della risurrezione.”
Mi interessa molto il tuo gesto pittorico e l’abbiamo definito “sincopato” proprio per la sua attinenza e vicinanza con la musica. Raccontami come lavori, qual è il processo che ti porta a realizzare le tue opere su carta così come quelle su tela.
Il mio desiderio non conscio è avvertire dentro di me la sensazione, che mi disturba, di non essere capace e adatto e, per ottenerla, sperimento male alcuni metodi in modo da non riuscire a scegliere una strategia che mi supporti e mi faccia sentire capace di dipingere o di fare arte, così nel momento in cui qualcosa mi sembra efficace, e sono libero dal disagio, mi sento capace e di nuovo inconsciamente dispiaciuto di non essere riuscito nel mio intento, quindi ricomincio daccapo. Nel frattempo, con questo fastidio sincopato, che rimanda ad un senso cinico e allo stesso tempo partecipato alla vita, produco, sapendo che questo gesto è già abbastanza. Se questo processo lo considero “buttare la pallina dall’altra parte del campo”, interrompere, con semplicità e chiarezza, ambiguità e contraddizione, rappresenta invece un “colpo speciale”, che può essere anche un errore, per chiudere la partita e la navigazione.
Veniamo al tema della mostra che è quello della imprevedibilità degli eventi e dell’impossibilità di avere un controllo completo sulla nostra vita e su ciò che accade. Credo che questo concetto sia condiviso oggi più che mai dopo il periodo che abbiamo vissuto. Cosa ti ha spinto a concentrarti su questo tema? Hai trovato una soluzione per affrontare l’imprevisto?
A Bolzano vidi questo piccolo affresco, lateralmente alla cattedrale, all’esterno, esposto alle intemperie, che approfondendo ho scoperto essere la rappresentazione di un pellegrino colpito da una campana. Mi è sembrata un’immagine onesta e senza tempo, capace di aprire una gamma di riflessioni su tematiche diverse tra loro, senza esclusioni. La mia soluzione è alla stregua delle decisioni, con esercizio costante, per prendere confidenza con la pazienza che differenzia. Quando non metabolizzato, il contrasto tra una tematica scaturita da un soggetto, ad esempio il pellegrino, che da un lato riesce ad includere una vasta gamma di possibilità a primo impatto prevalentemente positive, come il viaggio e la venerazione, e invece il contenuto di un evento dal sapore interrotto e improvviso di una decisione, che necessariamente esclude e concretizza, minando il senso di rispetto e protezione, se ad esempio una campana colpisse un pellegrino, genera disagio e insicurezza. Un pellegrinaggio, un centro commerciale, un cookie, possono essere una strada tracciata per gli insicuri, o altro, ma il condizionamento delle scelte personali e dell’approccio a queste, che insieme agli eventi modificano un certo grado di sicurezza, che dovrebbe essere garantito e che riguarda le sfera dei bisogni, alimentando il caos, e come questa mancanza di informazione contribuisca a creare l’ambiente nel quale siamo immersi, un ambiente che educa ed epigenicamente trasforma, lo considero una responsabilità personale, una campana, una lampada/sveglia.
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