di Arianna Beretta
Abiti diversi, spinotti nelle braccia e in testa assenti, anche i tuoi capelli sono cambiati.
Il tuo aspetto attuale è quello che noi chiamiamo “immagine residua di sé”,
la proiezione mentale del tuo io digitale.
Morpheus, da Matrix
Digital people, la personale di Francesco Messina, giovane artista siciliano, è particolare per diversi motivi, a partire dal luogo in cui viene accolta. Palazzo Coluccia è una dimora che ha un passato e una storia importante e ne porta le tracce ovunque si giri lo sguardo. Le persone di Messina invece sembrano vivere in un’altra realtà, davvero lontana da questo luogo. In una dimensione futura, o forse no. Forse questi giovani uomini sono già qui e il contrasto stupisce e fa riflettere.
L’intero corpo dei lavori di Messina ci trasporta in una dimensione altra: la tecnica, i supporti, i soggetti e le modalità con cui l’artista li tratta, ci spostano verso l’ipercontemporaneo, come ama dire lui stesso. Ci sono diversi livelli, proprio come i layer sui quali lavora le sue immagini al computer, da scoprire uno per volta.
Iniziamo dalla tecnica. Messina lavora le sue immagini con programmi di grafica; parte da una fotografia e la lavora fino ad appiattirla per poi farla risorgere attraverso un uso, anche divertito e divertente, di colori, pattern, schemi grafici. L’immagine che ne risulta è apparentemente bidimensionale, perché in realtà questi accostamenti, diventati con il tempo sempre più efficaci, donano al personaggio una fisicità e una tridimensionalità ben definita.
Anche i supporti che l’artista utilizza per stampare sono meno convenzionali rispetto al solito: per questa mostra utilizza infatti, accanto alla carta lambda, un supposto plastico che dona lucentezza e levigatezza ulteriore alle immagini. Ci avviciniamo a una visione da schermo al plasma, dove tutto è nitido, quasi all’eccesso. Quasi fossimo obbligati a vedere chiaramente tutto quanto, in modo forzato.
Altra caratteristica tipica del lavoro del giovane artista è l’uso del colore. Fin dai suoi esordi, quando utilizzava tecniche classiche, come olio ed ecoline, Messina ha attribuito al colore una importanza fondamentale, studiando ritmo e armonia. Non ci sono significati simbolici nell’utilizzo di un rosso invece che un verde; quello che preme all’artista è la forza comunicativa del colore stesso nelle giustapposizioni e negli accostamenti.
Fin qui la tecnica. Ma chi sono questi giovani uomini che ci guardano, a volte in modo diretto, altre volte invece ci escludono completamente dal loro orizzonte?
Troppo belli per essere veri, dei “semi dei” – come in effetti è accaduto per una serie del 2014 in cui alcuni giovani sembrano divinità di un passato antichissimo – questi personaggi dalle sembianze perfette non ci raccontano nulla. O meglio, non dicono nulla di sé, ma dicono tanto della società di oggi.
Non sono ritratti, se non nell’accezione odierna del selfie, che ritratto – o meglio autoritratto – non è perché, se ben guardiamo, tutte queste fotografie hanno poco di naturale e tanto di costruito, di finto. Quanti scatti facciamo prima di pubblicare una nostra immagine? Non vogliamo certo mostrarci per quello che siamo, vogliamo invece comunicare altro. Dare una immagine di noi diversa, quella che può piacere agli altri. Farci sentire accettati, ecco quello che importa. Ed ecco quello che importa ai giovani ragazzi di Messina. Raccontano uno status, non narrano emozioni, storie, ricordi. Sono icone del contemporaneo. Perfettamente immobili, si fanno ammirare.
Ritroviamo l’hic et nunc attraverso lo sfondo, i colori, i pattern. Messina mi racconta che tutti questi elementi hanno una doppia valenza: oltre ad essere elementi strutturali per restituire la fisicità dell’immagine, rappresentano il “bombardamento” a cui è sottoposto l’Occidente oggi.
Notizie, luci, suoni, colori, tutto riporta a una società che attraverso l’esagerazione – dal tono della voce alla esasperazione di mode e modi d’essere – tende ad appiattire, a uniformare, a togliere la voce.
Ed è su questa assenza di suono che mi stupisco ogni volta che guardo un lavoro di Messina. Questi uomini non hanno voce. Certo si fanno guardare, ma non hanno nulla da dire. Uniformati, massificati e belli, ma vuoti. Svuotati di tutto ciò che è personalità, cuore e passione. Capita che a volte i personaggi dell’artista aprano le labbra, e in effetti a volte sembrano urlare, ma dalle bocche escono colori e forme. Bellissime, armoniose ma senza suono. Come se fossero bloccati, come se non potessero raccontare liberamente chi sono e cosa pensano.
Francesco Messina compie dunque una ricognizione sulla società occidentale e lo fa criticamente ma in modo lieve. Il turbamento che provoca è attutito dalla bellezza della composizione delle sue immagini, permettendo comunque una riflessione lucida sulla nostra identità.