Barbara Nahmad: è la stampa, bellezza*

di Marta Cereda

Marilyn si affaccia, vestita di rosa, e manda un bacio a fior di labbra allo spasimante di turno, che, senza rendersene conto, si ritrova a fissarne l’immagine e a idolatrarla.
Audrey, Kissinger e Bob Dylan le fanno compagnia, pur così diversi, contendendosi il ruolo di primadonna sulla scena, con la rivalità tipica di chi è abituato ad attenzioni esclusive.
Dietro di loro, sotto di loro, gli stralci di un passato prossimo, di un presente ormai dimenticato, ad eccezione delle gesta che di loro si tramandano, moderni eroi, cavalieri con macchie e paure.
Come il prestigiatore che agita il cilindro, mostrando il doppiofondo a chi ha la vista abbastanza acuta da coglierne la presenza, Barbara Nahmad, nelle sue opere su carta, svela l’arcano, velando con i colori i quotidiani e ri-velando che questi costituiscono non solo il supporto per il disegno, ma anche la fonte d’ispirazione per la sua opera. Non c’è bisogno di leggere le didascalie per riconoscere i volti, delineati dall’artista con pochi tratti. Sono immagini familiari, che si identificano senza difficoltà, indipendentemente dalla propria provenienza geografica, dal grado di istruzione o dall’età.
Soggetto e medium si confondono. Un materiale tradizionalmente molto fragile, destinato a durare un giorno soltanto viene incorniciato e reso eterno, grazie ai ritratti di quelle icone che proprio dai giornali e dai mass media hanno ottenuto popolarità e attraverso i quali si sono trasformati da personaggi di spettacolo (chissà cosa direbbe Kissinger se si sentisse definire così…) a personaggi storici. Sono riusciti a prevalere sulla contingenza, sulla cronaca, a condizionare la propria epoca e a diventarne il simbolo, in un rapporto ambivalente con i mezzi di comunicazione.
L’immagine si integra con il testo, si sovrappone e si sostituisce ad esso, rendendo possibile la ricostruzione della cronaca attraverso il ricordo personale. Barbara Nahmad mette nelle condizioni di attuare una re-visione (liberando il termine da qualunque accezione negativa) soggettiva della storia, in cui, però, la memoria individuale è inevitabilmente filtrata e influenzata dalle immagini e dai racconti diffusi dai mass media.
Le macchie d’olio si allargano sulla carta stampata, senza volerne cancellare i contenuti, bensì creando una connessione tra il personaggio ritratto e la storia narrata nel testo, di cui si colgono solo frammenti, che non impediscono, però, di ricostruirla, legando il mito con la cronaca del suo tempo: quegli anni Sessanta in cui i nostri eroi hanno condiviso la celebrità.
Così Marilyn Strega chi l’osserva, tenendo gli occhi socchiusi, senza aver bisogno di ricorrere all’antica tecnica di Medusa.
Bob Dylan, caratterizzato dagli occhiali scuri, mostra al posto della capigliatura ricciuta l’indicazione della patria adottiva della sua famiglia.
Kissinger sorride, compiaciuto. Si nasconde dietro lenti spesse, che riflettono la luce impedendo di osservarne l’espressione. L’avverbio behind troneggia dietro di lui, indicativo del suo ruolo nello scenario politico internazionale.
Audrey Hepburn è l’unica che ricambia lo sguardo di chi si trova di fronte a lei. Ha un filo di perle al collo, le mancano solo il bocchino e il gran cappello a tesa larga per essere Holly Golightly, il personaggio che Truman Capote avrebbe voluto far interpretare all’inquilina del piano di sotto, Marilyn Monroe. E chissà quanto spazio fu dedicato dalle pagine di Life del 1961 alla rivalità tra le due attrici. Abbastanza per parlarne ancora oggi.

*Come disse Humphrey Bogart nel film L’ultima minaccia di Richard Brooks (1951).

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