di Arianna Beretta
L’obiettivo di P2P, Proud to present, è quello che da sempre sottende le attività di Circoloquadro, scoprire e sostenere giovani talenti, ma con questo progetto si rimescolano le carte e si ribaltano le dinamiche che regolano l’ideazione e l’organizzazione di una mostra. Dato un tema, il paesaggio, ho chiesto a cinque artisti – Vanni Cuoghi, Massimo Dalla Pola, Pastorello, Michael Rotondi e Giuliano Sale -, che chiameremo senior per esperienza e pratica artistica, di riflettere sull’argomento e di scegliere e presentare due giovani artisti a testa. Il motivo è assai semplice: vedere la pratica artistica – dall’ideazione all’esecuzione – da dentro, dalla pancia, conoscendo le difficoltà e riconoscendo la qualità.
Una collettiva dalle caratteristiche insolite dunque, che vede cinque artisti nelle vesti di curatori e mentori di giovani e che si mettono in gioco in prima persona in una scelta che molte volte si allontana dalla loro personale cifra stilistica, ma che dipende da un comune sentire, dall’ammirazione verso le nuove proposte o semplicemente dal riconoscimento della bontà e del valore dei lavori dei giovani artisti.
I lavori dei senior vengono così affiancati alle opere, da loro selezionate, dei giovani in un confronto che si rivela assai stimolante sia per il pubblico sia per i protagonisti della collettiva sollecitando una riflessione sui nuovi scenari e sui linguaggi espressivi dell’arte contemporanea.
Ovviamente P2P non può che riportare alla mente lo schema della rete i cui nodi non sono gerarchizzati, ma ognuno di essi funge sia da client sia da server. L’esempio più classico di peer to peer è la rete utilizzata per il file sharing, quindi per la condivisione dei file e dunque delle informazioni. P2P, Proud to present, gioca sulla ambivalenza dell’acronimo per lavorare sulla condivisione e la “messa in rete” di giovani artisti e delle loro opere in una logica di relazione e valorizzazione dei nodi della stessa. Ecco dunque che artisti che hanno maturato già una esperienza significativa nel loro ambito si relazionano e condividono il lavoro dei giovani.
Panorama
È in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino
li creo; se li creo esistono; se esistono li vedo.
Fernando Pessoa
Titolare Paesaggio questa mostra sarebbe stato riduttivo perché non si tratta di una “mostra scenario” sulla pittura di paesaggio né di una indagine su questo genere all’interno del contemporaneo; P2P #01 Panorama indaga sul ruolo che il paesaggio ha oggi sul lavoro degli artisti. Per questo la scelta è caduta sul termine Panorama, inteso nel suo senso originario, dove pan significa “tutto” e orama “vista”. Ci riferiamo dunque a una visione globale della realtà che gli artisti ci restituiscono.
Dalle opere in mostra appare evidente come il paesaggio, sia esso puro nella sua descrizione degli elementi naturali che lo costituiscono, sia esso antropizzato e dunque testimone dell’opera dell’uomo su di esso, non sia l’esclusivo protagonista, ma uno degli elementi – a volte un pretesto – che contribuiscono a restituire la visione dell’uomo e del mondo che gli artisti hanno concepito.
La descrizione del paesaggio si arricchisce di memorie e ricordi, personali e collettivi, svela l’appartenenza e l’identità, descrive l’ambiente a volte con chiarezza altre volte con ambiguità, riveste di mistero la realtà e diventa spesso strumento di critica.
I “Giardini del benessere” di Vanni Cuoghi richiamano un’arte del passato, un modello su tutti le scenografie teatrali del Bibbiena, e svelano una grande perizia pittorica nella descrizione di essenze verdi con un risultato di soavità e leggerezza, salvo poi ribaltare il senso del lavoro svelando il supporto: scatole di farmaci, a indicare un malessere diffuso in cui la natura, forse, non può essere di aiuto.
Induce invece alla riflessione sull’antropizzazione dell’ambiente il lavoro di Massimo Dalla Pola. Nelle sue immagini fotografiche la luce consuma le forme fino quasi ad annullarle. L’uomo è il grande assente che tuttavia turba e modifica il paesaggio e il rapporto che l’uomo ha con esso.
La pittura di Pastorello, che coniuga la grande tradizione italiana del 1200 con quella cinese, attrae e attira letteralmente lo spettatore all’interno dei suo paesaggi che si caricano di rimandi e di simboli e che nella loro apparente immobilità svelano una vita segreta.
Felicità pittorica e gioia di vivere si respirano nel lavoro di Michael Rotondi che recupera l’iconografia da una immagine della sua infanzia: un tramonto sul mare che l’artista ricorda su un adesivo attaccato a una “due cavalli”. Energia, forza, vitalità erompono da questo paesaggio, in una sorta di animismo contemporaneo.
Il paesaggio è invece per Giuliano Sale un linguaggio adatto a descrivere se stesso, come scrive nel suo testo, ma anche quel senso di mistero che avvolge la nostra esistenza. Le sue case, immerse in un bosco silenzioso e in una luce notturna, suggeriscono che qualcosa, forse, sta accadendo. Qualcosa – o qualcuno – agisce nel paesaggio, ma la domanda e l’attesa rimangono senza risposta.
Passo ora “la penna” a Vanni Cuoghi, Massimo Dalla Pola, Pastorello, Michael Rotondi e Giuliano Sale che presentano il lavoro dei giovani artisti da loro scelti: Riccardo Garolla, Paolo Marchi, Fabio Mazzola, Dario Molinaro, Isabella Nazzarri, Paolo Pibi, Mirka Pretelli, Agnese Skujina, Andrea Tonellotto, Viviana Valla.
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Pittura Bastarda
di Vanni Cuoghi
Sul finire degli anni ‘60 un gruppo di artisti propone il ritorno alla pittura lungo un percorso analitico e auto riflessivo. La pittura pensa se stessa e lo fa ripartendo da zero. Nessuna rappresentazione: essa si pone come oggetto e riflette sul supporto, sul colore e sulle modalità del fare. Non è una nuova astrazione, anzi, direi che è proprio l’opposto: in fondo la vera pittura astratta è soltanto quella di cui si parla o si scrive.
Adesso, dopo quasi un ventennio in cui la pittura si è riappropriata di tutte le connotazioni contenutistiche, narrative e citazioniste, un gruppo di giovani artisti fa capolino riprendendo quel bandolo della matassa e lo fa in modo soave, senza colpi di spugna o inutili proclami.
Nasce una pittura che Tony Godfrey non esiterebbe a definire Astrazione Ambigua ma che preferisco pensare come Pittura Bastarda non essendo figlia legittima di nessuno. In essa confluiscono l’attenzione al “modus pingendi” della Pittura Analitica, miscelata ad una propensione narrativa ed evocativa.
Alcuni di questi autori non nascondono che l’input poetico parte dall’osservazione di certe forme naturali o suggestioni paesaggistiche.
È il caso di Viviana Valla e Isabella Nazzarri.
Attraverso una serie di stratificazioni date dal sovrapporsi di campiture pittoriche e carte veline, Viviana Valla compone le sue opere in un andirivieni di affermazioni cromatiche e cancellazioni. I dipinti, costruiti con rigore quasi chirurgico, riportano al centro una forma regolare tendente al bianco che, in una sorta di anti-finestra, preclude una visione centrale. Il paesaggio si trova ai lati del campo e in esso navigano motivi decorativi di antiche carte da parati, piccole frasi e schizzi di disegni tratti da un diario intimo che l’artista svela solo a chi ha intenzione di soggiornare a lungo, con lo sguardo, sull’opera. Le colline e gli orizzonti sono quelli dell’immaginazione che ci fa varcare le soglie di tutte le stanze in cui siamo, a volte, confinati.
Isabella Nazzarri ci conduce attraverso i territori di una pittura che fa i conti con le forme di una Natura che sembra essere di un altro pianeta. Qui il gesto pittorico, a tratti, è ampio e magro di pigmento, altre volte invece è calibrato, denso e concentrato su se stesso. L’artista fa scivolare il pennello sulla tela lasciando visibile la traccia delle setole e il segno che ne deriva rimanda inevitabilmente agli spaccati delle rocce sedimentarie. Nazzarri dipinge paesaggi con le stesse modalità con cui li guarda: ora l’occhio scorre veloce sul profilo delle montagne, ora si sofferma su alcuni particolari che non riesce immediatamente a mettere e fuoco. Nella sua pittura non c’è differenza tra microcosmo e macrocosmo: la corolla di un fiore è già un mondo.
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Doppia via
di Massimo Dalla Pola
Nella ricerca di un binomio che fosse esemplare delle vie della figurazione paesaggistica europea (una nordica e una mediterranea), ho individuato due artisti che possono essere presi come esempio dei differenti approcci alle visioni ad ampio raggio.
Se mi si chiedesse di concretizzare in un’immagine l’idea che ho del paesaggio baltico, il primo pensiero andrebbe ai lavori di Agnese Skujina. Per i colori, innanzitutto, che si dipanano sulla carta in un monocromatismo tonale freddo ma magmatico; poi per la materia, liquida e inquieta: una sorta di organismo cellulare nel quale le particelle sembrano agitarsi nella perenne rigenerazione naturale che accade sotto i nostri sguardi; e, naturalmente, per l’iconografia fatta di paesaggi boschivi e lacustri.
C’è l’atmosfera di un Munch frantumato. Stessi specchi d’acqua che attirano verso l’abisso, che qui appare però come una dimensione più complessa: è come se il livore cromatico di un’Europa ancora egemone, ma vicina alla tragedia, sia stato congelato per un secolo e conservato in un involucro plastico, attraverso il quale ora possiamo vedere poco a poco la realtà sciogliersi in tante unità individuali. Si coglie ancora la trama di un disegno, ma questo è più difficile da comprendere, è fratto e titanicamente tenuto insieme da una estrema volontà di comprensione del nostro tempo.
La nemesi delle atmosfere lettoni di Agnese Skujina è la luce calda dell’Italia che esplode prepotentemente dalle istantanee di Andrea Tonellotto. Quando la fotografia trascende se stessa e la pura immagine documentaria viene sporcata, allora una pratica tecnica può ambire a posizionarsi in un orizzonte più ampio di quello della pura registrazione del dato reale. Qui non si tratta solo di luce (che è una parte costitutiva del processo fotografico e quindi non analizzabile in quanto elemento distinto) ma anche e soprattutto di materia, di reazioni chimiche e di supporti. Non è nemmeno questione di postproduzione o fotoritocco, ma piuttosto di uno sguardo laterale, che si posa sulle cose, disciplinato dalla capacità di addomesticare il mezzo, la camera oscura, in tutte le sue declinazioni tecnologiche.
E la polaroid è la fotografia pittorica per eccellenza: grazie alla sua imperfezione congenita, combinata con le ombre che una luce onirica diffonde nelle vuote “piazze d’Italia”, Tonellotto crea atmosfere metafisiche molto vicine a De Chirico o Rosai ma anche debitrici di un’estetica “più americana” quale quella espressa dagli scatti di Stephen Shore. La presenza umana è solo indovinata, quasi fossimo su un set di un vecchio episodio di Twilight Zone.
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Paolo Marchi e Paolo Pibi
di Pastorello
Uno sguardo incantato che osserva la propria crescita, è la città che sale ed il suo dinamismo. Non c’è nessuna esaltazione, sono periferie, la pelle in espansione della città, il paesaggio urbano nel suo auto definirsi. Non abitazioni ma una architettura organica, viva, unanimista. Paolo Marchi è una città e costruisce ciò che vede.
Paolo Pibi abita i suoi paesaggi, ci gioca. Nell’atmosfera c’è attesa, è la metafisica; l’animazione statica di un paesaggio immaginario che diventa protagonista dell’evento. Animato, vivo e divertito dai propri fenomeni. Tutto può accadere e tutto può far accadere. La pittura è anche questo, lei può farlo, lui può farlo.
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Senza titolo (L’adesivo del ragazzo con la chitarra)
di Michael Rotondi
Ripartire dal paesaggio, o arrivarci e ripartire o semplicemente esserci, è una pratica importante per l’arte e per l’artista. Ecco perché ho invitato Riccardo Garolla e Mirka Pretelli.
Riccardo Garolla abita a contatto col bosco e ha studiato a Milano dove di boschi ce ne sono pochi e la lontananza è uno dei suoi temi. Riccardo segna le sue carte con raffigurazioni di piante e alberi. L’affezione alle figure naturali si connette con l’esterno attraverso l’osservazione degli organismi pianta. Sostiene che nell’età e nella forma delle piante individua la sua biografia. Prende dunque appunti veloci a china, fotografa il bosco che lo culla e traccia un percorso nell’armonia del verde e nella freschezza della terra. Il concetto di costruzione affiora nella sua ricerca, dove tutto cresce, come le piante: è la fatica della maturazione. Quello che ho fatto per te è una meditazione sul cambiamento e una descrizione di avvenimenti quotidiani nel momento dell’assenza; attesta la convivenza con la mancanza e ridisegna il paesaggio che cambia.
È nata e rinata più volte a Urbino, come sostiene Mirka Pretelli che cerca la propria identità parlando della sua terra perché il senso di appartenenza è forte. La terra chiama e lei la porta sulla tela per ricreare immagini del cuore, memorie intrise di affetto. Sono silenziose le vedute di Mirka, che esprime i concetti di provenienza e appartenenza trasformandoli in codici della sua poetica. Attraverso immagini segretamente fotografiche, Pretelli ruba alla realtà per memorizzare il sapore e la luce. Osservo il suo lavoro, ne respiro l’atmosfera immobile, riposano i miei occhi e leggo la quiete della sua campagna. Dietro quella collina il mistero: là dietro cosa c’è?
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Interzona
di Giuliano Sale
Varcai i confini della città,
qualcuno mi aveva convinto a farlo,
attratto da qualche forza interiore,
dovetti chiudere gli occhi per avvicinarmici
Ian Curtis, Interzone
Per P2P Panorama ho scelto di presentare due giovani artisti che lavorano sul paesaggio in modo non convenzionale. Pur essendo io pittore per vocazione, la mia scelta mi porta a farmi accompagnare da Fabio Mazzola e Dario Molinaro che con la pittura hanno poco a che fare, poiché i due artisti lavorano prevalentemente su carta usando tecniche miste, molto legate al segno e al disegno, utilizzando quindi tecniche miste anziché appunto la “classica” pittura su tela.
Il lavoro complesso e allo stesso tempo fresco e immediato di Fabio Mazzola è caratterizzato da incastri e stratificazioni di immagini che si plasmano insieme, creando luoghi mentali intrisi di meccanismi e architetture organiche che disseppelliscono in modo sottile gli automatismi dei processi mentali, delle funzioni vitali e dell’atto sessuale. Questo “caotico” processo interiore viene spezzato con frasi apparentemente senza senso ma che invece contribuiscono attivamente a completare il cerchio claustrofobico partorito dalla sua mente. Il paesaggio per Mazzola è quindi un “esibizione di se stesso”, frammenti di vita vissuta masticati, digeriti e rigurgitati sulla carta cosi da ricreare in modo creativo una visione non convenzionale del paesaggio classico.
Il lavoro di Dario Molinaro, pur avendo un modus operandi non distante dal lavoro di Mazzola, si distingue da esso in quanto Molinaro è una sorta di “musicista del segno”. Il suo lavoro è caratterizzato da vuoti e pieni, velocità e riflessione, prospettive aeree e piani deviati. I suoi “paesaggi della memoria” sono caratterizzati da un affastellamento di segni, visioni metaforiche, riferimenti all’attualità o alla storia dell’arte densi di un universo simbolico evocante memorie arcane e archetipiche. Figure zoomorfe o antropomorfe, elementi naturali o architettonici si intersecano con elementi numerici o con frasi tratte da testi letterari o da riflessioni personali che vanno a ricreare dei temi di vita vissuta, ricordi o problematiche esistenziali.
Ho scelto di presentare questi due artisti perché, come me, non si servono del paesaggio per descrivere banalmente un luogo ma, diversamente, raccontano se stessi servendosi dei luoghi, della memoria, di stralci di vita vissuta che uniti insieme fanno del paesaggio un continuo autoritratto.
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